OMELIA DEL PRESBITERO DON GIOVANNI SILVESTRI
Padre … mi ha chiesto oggi di presiedere alla Celebrazione Eucaristica di commiato del suo caro fratello …
Le sono veramente grato.
Mentre esprimo ancora a Lei, alla Signora, ai figli e nipoti e a i parenti la mia più viva partecipazione al vostro lutto e alla vostra sofferenza, lei sa, se è di suo gradimento e se la sente, può dire anche qualche parola a conclusione della celebrazione.
Ho parlato di lutto e di dolore. Come fare a non parlarne?
Come fare a non sentire la sofferenza per la scomparsa di una persona amata, di una persona che abbiamo amato e ci ha amato, con cui si è condivisa la propria vita, la propria esistenza, affetti, sentimenti, progetti, speranze, desideri, ansie, preoccupazioni, momenti belli e brutti; e poi cibo, mensa, casa, tutto?
Come fare, parlo soprattutto a lei signora … – e anche a voi figli, … e … – a non sentire uno strazio doloroso; lo strappo violento, improvviso, fraudolento della carne, dell’unica carne, nel nostro caso proprio dopo l’uscita dall’ospedale, quando si nutriva il desiderio di un miglioramento nella salute e la soddisfazione per un ristabilimento della normalità di vita?
Come non sentire un turbamento che ci scombussola dentro, lo scompiglio profondo che ci costringe a riconfigurare la nostra vita di ogni giorno, a ritrovare un nuovo assetto interiore, spirituale e non solo?
Come non ripetere e non gridare al Signore le parole di Marta e di Maria: “Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto?”
Eppure, la parola ‘lutto’ per noi cristiani non può non avere un significato del tutto peculiare e particolare, se non addirittura contraddittorio con quello che dice la lettera della parola. Per noi che crediamo la parola andrebbe, anzi va addirittura cancellata e archiviata. Parola, tutt’al più, che possono usare solo quelli che non hanno fede.
Senza la fede, certo, dal punto di vista semplicemente umano, quando scompare una persona che ci è cara e con cui si è condiviso tutta la vita, l’alternativa sarebbe: o la disperazione totale, oppure – volendo stare sulla linea di una certa razionalità o di semplice buon senso – l’atteggiamento epicureo e stoico della rassegnazione. Rassegnazione razionale, fredda e distaccata, in risposta a un evento considerato semplicemente naturale, inevitabile, com’è nella natura delle cose, sia in quella vegetale che in quella animale. Si muore tutti, infatti. Prima o poi. La morte sembra essere la conclusione fatale, più o meno tardiva, della vita; la fine di una parabola che ha un tratto ascendente e uno discendente, bene evidenziata da certi quadretti antichi o stampe che spesso si trovano ancora nelle nostre case, dove si vedono le immagini a gradini o ad arco rispondenti alle diverse età della vita dell’uomo dall’infanzia alla vecchiaia.
Eppure ripeto, la parola ‘lutto’, a noi cristiani si addice poco o nulla; e anche il colore nero, totale assenza di colore e di luce, tranne che usato per moda, si addice poco o nulla; anzi più nulla, che poco.
Il colore che ci si addice è invece il colore della vita, della gioia, della festa. Il bianco: non tanto per la sua valenza semplicemente culturale, ma perché sintesi di tutti i colori; il bianco perché simbolo ed emblema della luce di Dio e del suo splendore; simbolo dell’alba radiosa che si nasconde – dopo l’evento della Pasqua del Signore – nello stesso evento della morte. Ci si addice il bianco luminoso, simbolo del giorno che nasce dopo la notte buia; figura della gioia per una vita che ricomincia nella e dalla stessa tomba; metafora della nostra carne che, seppure sottomessa alla corruzione del peccato e della morte, si riveste della stessa carne e della stessa pelle luminosa di Cristo e della sua gloria.
Il grido perciò che oggi, con pieno diritto, rivolgiamo ancora a Cristo Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto” è un grido che nasce non dalla disperazione per un evento irrevocabile e irreversibile, ma dalla forza di un desiderio nascosto nel cuore di noi battezzati, che abbiamo ricevuto l’adozione a figli; nasce dallo Spirito che abbiamo ricevuto e che ci fa gridare: Abbà, Padre.
Il nostro grido al Signore è invocazione che nasce dalla speranza segreta che ci portiamo dentro e che vorremmo esaudita e realizzata quanto prima.
È grido che nasce da una fede super-fondata nella parola di Cristo. Perciò lui – come a Marta e a Maria, ormai rassegnate al cattivo odore che emanava dal sepolcro del fratello – risponde ancora: “non t’ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?”
È questa la parola che fonda la nostra fiducia e nutre la nostra speranza di figli – realmente figli di Dio – chiamati ad ereditare la vita di Dio. Fatti figli e coeredi di Cristo, noi viviamo nell’attesa di vedere il volto di Dio, di vederlo faccia a faccia, come ci ricorda s. Giovanni; di vedere trasformata dalla sua luce la nostra vita presente; di vedere trasformato l’universo intero, l’intera creazione dalla gloria dei figli di Dio. “Voglio vedere Dio”, scriveva e pensava in una sua magnifica opera, Teresa d’Avila. Desiderio inscritto nel cuore dell’uomo, che deve portarci finalmente a farci la domanda: a che serve vivere senza conoscere Dio; a che servirebbe conoscere tutte le cose create, senza conoscerne l’autore invisibile? A che servirebbe, noi che siamo amanti dell’arte e delle cose, amanti del nostro trittico, della nostra custodia argentea… a che servirebbe conoscere e apprezzare tutto questo senza conoscerne la sorgente e la fonte ultima. Solo questo può essere veramente l’approdo finale della vita dell’uomo. Altro che lutto perciò.
Perché listare a lutto un giorno che per noi è ritorno a casa; fine di un incubo notturno e inizio di un giorno tutto nuovo: Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio».
Il dolore e la tristezza di oggi, se così proprio vogliamo chiamarli così, sono solo il dolore e la sofferenza del parto. Avvertiamo oggi l’ansia di una vita nuova e trasformata; trasfigurata dalla luce del Signore trasfigurato e risorto. Avvertiamo il desiderio di una gioia e di una beatitudine che solo Dio può dare alle nostre stanche membra, al nostro corpo fragile e mortale, ai progetti sempre zoppicanti e lenti del nostro umano camminare.
Padre …, non occorre che glielo ricordi io, perché da lei l’apprendo e l’ho appreso: viviamo nell’attesa che si compia il disegno d’amore di Dio su di noi; il momento e il tempo maturo nel quale finalmente possiamo tornare al grembo di Dio, dal cui amore siamo stati generati. Ne sentiamo forte il desiderio; sentiamo forte il desiderio, come si esprimerà S. Paolo quasi alla fine della parabola della sua vita, di essere liberati da un corpo di morte corruttibile per assumere un corpo incorruttibile e glorioso. Sentiamo il desiderio vero di uscire da un penoso e logorante esilio e di entrare in una patria vera della quale essere cittadini a pieno titolo: il desiderio di essere veri cittadini del cielo, della nuova Gerusalemme, dove non ci sarà più sofferenza, lutto, lacrime, lamenti e affanni; dove non ci saranno più disagi e corse in ospedale, morti precoci o improvvise, e neppure violenze e malvagità, sfruttamento e oppressione, ingiustizie e fame, paure e sofferenze.
Il futuro che Dio riserva a quelli che hanno fede nel suo Figlio e nella sua Parola sarà sorprendente. In esso, le sofferenze del momento presente non saranno minimamente paragonabili alla gloria futura che si manifesterà nella carne dei figli di Dio. Perciò oggi, con tutta la creazione gemiamo fortemente, soffriamo nelle doglie di un parto che vedrà cieli e terra nuovi; gemiamo interiormente, noi che possediamo le primizie dello Spirito e aspettiamo con impazienza la piena redenzione del nostro corpo mortale e fragile.
Oggi, perciò, nel nostro grido di sofferenza, profetizziamo e prefiguriamo il giorno in cui la chiesa intera, corpo redento dal Signore, discenderà dal cielo, rivestita di luce e di splendore, come “sposa adorna per il suo sposo”.
Oggi nell’eucaristia che celebriamo e che ci fa concittadini dei santi e commensali alla mensa di Dio, prefiguriamo e pregustiamo il giorno in cui si dirà: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. Non saremo più lontani da Dio, non saremo più ospiti e pellegrini, non saremo più naufraghi e sempre sloggiati, perché Dio stesso sarà la nostra dimora, perché noi saremo il suo popolo ed egli sarà il Dio con noi e, finalmente sarà pienamente realizzato e compiuto, dinanzi ai nostri occhi stupefatti e meravigliati, il mistero dell’incarnazione e della pasqua, che Dio ogni anno ci dà la gioia di celebrare. E finalmente Dio tergerà ogni lacrima da nostri occhi, consolerà ogni nostro dolore e sofferenza, farà scomparire ogni vergogna e disonore.
È questa la realtà alla quale il nostro caro defunto … apre oggi i suoi occhi e la sua vita; è alla presenza di un Dio amante della vita che lo introduciamo celebrando l’eucaristia, sacramento del Signore che si è donato a noi per comunicarci la sua divinità e la sua immortalità. È alla gloria del Signore risorto che lo avviamo con le nostre preghiere e con le nostre lacrime di gioia; alla visione della sposa che discende dal cielo come sposa adorna per il suo sposo. È alla vita nuova che lo introduciamo, al regno di Dio che qui, miti e umili discepoli del Signore, abbiamo accolto nella fede e nella speranza; alla bellezza, alla pace, allo splendore puro della città di Dio.
Abbiamo poi la certezza che il Signore, come Lui solo sa e può fare, saprà condonargli ogni debito; quel debito che tutti in questa vita contraiamo con Lui. Il Dio nel quale crediamo, a riguardo dei nostri debiti, ha la memoria cortissima, anzi nulla. Non tiene conto dei nostri debiti e rifà daccapo il nostro cuore e il nostro spirito, dimentico dei nostri errori. Saremo solo avvolti dalla sua divina compassione; Egli ci renderà capaci di stargli davanti senza più vergogna o rossore per i nostri tanti limiti e povertà. A Lui il nostro rendimento di grazie. A lui, che ci ha amati e che ci lavati dal peccato nel suo sangue; a Lui che ci ha fatti regno e sacerdoti al Padre suo; a Lui la potenza e la gloria nei secoli. Amen
Giovanni Silvestri